PRIMA LETTERA A POLICARPO

19 marzo 2003

Caro Policarpo,


mi trovo a rispondere alla tua lettera con ben due mesi di ritardo. Perdonami, sono sempre stato lento a scrivere le lettere, ma se si tratta di una lettera importante, allora sono lentissimo.


Spero solo che tu non abbia pensato che non avessi voglia di risponderti, o che non abbia gradito la tua lettera. La verità è  che ti avrei scritto – e ho pensato di farlo – subito dopo averla letta. Ma trovare il tempo e il modo di mettere su carta la mia valanga di pensieri non è stato facile.


Per un momento ho anche sperato di poter parlare di tutto questo faccia a faccia, in viaggio verso la Polonia, invece poi non ti ho potuto nemmeno salutare.

Comunque innanzitutto volevo dirti che conoscerti e parlare con te è stato davvero bello e importante. Mi ha dato forza, coraggio, e fiducia nella Chiesa. Speranza nel suo futuro.


E davvero ne avevo bisogno!


E poi non mi è capitato spesso di incontrare un frate così francescano, nel modo più pieno come te.

E forse questo è uno dei motivi per cui non sono mai diventato frate!

Ho conosciuto Francesco quando avevo 18 anni e ne sono rimasto davvero folgorato.

Ha cambiato la mia vita, in lui ho trovato un modello e un maestro che ha segnato tutte le mie scelte di vita: da quelle religiose a quelle politiche, dagli studi universitari al mio rapporto con il creato.


All’inizio – come forse è normale – ero molto esaltato;  pregavo sdraiato sui prati, rifiutavo di reagire a qualsiasi tipo di insulto o provocazione e mi ero messo in testa di fondare un nuovo movimento religioso, come lui, da laico, aveva fatto. “I frati di oggi – mi dicevo – sono come i monaci di allora. Se Francesco nascesse oggi non si farebbe certo frate francescano!”. Con il passare degli anni, poi, mi sono “ridimensionato” e ho meditato per molti anni sull’idea di diventare frate minore. Sono stato – vista questa tendenza – anche molto “corteggiato” dal Seminario Diocesano, ma non ho mia preso seriamente in considerazione l’ipotesi di farmi prete. Io volevo, semmai, entrare in convento. Consideravo quello di diventare frate francescano come l’ideale più alto, l’unico modo di realizzare pienamente la mia vita, anche se continuavo ad innamorarmi di ragazze che poi, a dire il vero, non mi ricambiavano mai.


La verità è che non avevo ricevuto la chiamata.


Per anni ho continuato a ripetere nelle mie preghiere: “Signore, cosa vuoi che io faccia?”, ma non ho mai avuto risposta. Nel luglio del 1995 – a vent’anni – ho frequentato i corsi vocazionali di Assisi, al termine dei quali ho parlato con un frate di Santa Maria degli Angeli e gli ho esposto la mia “vocazione”.

Lui mi ha risposto: “Sei fidanzato? No, allora prima trovati una ragazza, e poi ne riparliamo”.

Quelle parole mi hanno illuminato.

Francesco aveva rinunciato a tutto. Ma io, a cosa rinunciavo? Rinunciavo a tutto ciò che avevo sempre desiderato ma non avevo mai avuto. Non ero ricco, non avevo un lavoro né riuscivo ad immaginarne uno che davvero potesse diventare una ragione di vita,  non mi è mai piaciuto “vestirmi bene” (quindi il saio non mi avrebbe creato nessun problema, anzi, poteva persino essere un vezzo, una bella divisa da indossare). Non avevo successo con le donne.

Allora ho capito che la mia presunta vocazione non era che un rifugio, una fuga dalla solitudine, dalle responsabilità, e – soprattutto – dalla frustrazione.

Avrei voluto fare l’attore, ma non avevo una compagnia teatrale, avrei voluto fare il giornalista, ma non avevo un giornale. Avrei voluto una persona con cui dividere la vita, ma ero solo.


In fondo la mia vocazione non era che la volontà di rifiutare un mondo che non mi piaceva e che non mi aveva dato nulla. Mi piaceva l’idea del convento perché mi evitava la preoccupazione di dover mantenere una famiglia, di trovare un lavoro (questi maledetti ideali borghesi della famiglia e del lavoro!).

Mi piaceva la vita francescana, perché alternativa ad un sistema di valori che contestavo.


Davvero la mia sarebbe stata una fuga mundi. Ma non c’è niente di più lontano dalla “fuga mundi” dell’autentica vocazione francescana, lo sai.

La verità è che non ero innamorato di Dio. Che pessimo frate, sarei stato! Represso, egocentrico, disperato ogni volta che il mio tentativo di aiutare una persona fosse fallito.

Passò un anno, e mi fidanzai con la mia migliore amica.

Anche lei, in realtà , era un ripiego, dovuto al grande bisogno di dare e ricevere affetto, di avere una ragione di vita. Ma allora non potevo saperlo, perché non ero mai stato con una ragazza.

Per qualche mese, comunque, continuai a pensare (e glie lo dicevo, anche!) che anche se stavo bene con lei, il massimo restava diventare frate.

Poi, con il tempo, mi esaltai sempre in quella nuova meravigliosa avventura chiamata Amore. Imparai che cosa significa veramente amare una persona, nel bene e nel male, fino a rovesciare completamente i miei ideali.


Se prima pensavo che l’amore vero si potesse realizzare solo nella vita religiosa (perché quello verso una persona sola è un amore egoistico), adesso ritenevo, al contrario che l’amore vero si potesse realizzare solo nella vita di coppia, perché solo questo tipo di rapporto ti costringe a confrontarti totalmente con un’altra persona, e quindi a metterti veramente in discussione.

 

Dopo due anni quella storia finì, e fini nel modo peggiore, e da allora dell’amore non ci ho capito più niente: ho perso fiducia nell’amore e nelle donne, senza, peraltro, recuperare l’ideale religioso, al quale ora pensavo addirittura con un senso di oppressione.

Il mio modo di vedere la vita è diventato più disincantato, ho messo da parte teorie ed esaltazioni diventando, fondamentalmente misogino, individualista e – soprattutto – profondamente laico.

Avevo capito che le mie sofferenze erano state tutte dovute alla mancanza di esperienza. Esperienza sentimentale, culturale, politica. Davvero fino ad allora le mie uniche esperienze erano state di carattere religioso. Ero cresciuto idealista, sì, ma anche bacchettone, qualunquista, ignorante e ingenuo.

Così il mio nuovo comandamento è diventato quello di fare più esperienze possibili. Viaggiare, leggere, capire il mondo, avere più storie d’amore possibile e – se possibile – anche senza amore, che sarebbe stato meglio, perché non avevo nessuna intenzione di legarmi (“mai! Mai più!” Mi dicevo) di innamorarmi seriamente di una donna tanto da considerarla più importante di me. Lasciai in sospeso la questione sulla verginità (il matrimonio non faceva più parte delle mie prospettive di vita, ma non mi andava nemmeno di andare con una qualsiasi) per il resto abolii qualsiasi sovrastruttura morale del tipo “mi metto con una donna solo se la amo” anche se la mia etica mi avrebbe impedito comunque di fare del male ad una ragazza, nonostante il mio bisogno di rivalsa.

Insomma, sono diventato un “individualista innocuo”: non è stata tanto la mia condotta di vita a cambiare, quanto piuttosto il modo di concepire l’amore, l’idea – fondamentale – che non posso fare felici gli altri se non sono felice io.

Non credo sia stato un atteggiamento negativo: mi ha aiutato a liberarmi da tanto buonismo e da tante frustrazioni. Non so se sono diventato più egoista di prima, ma non credo. Certo, non sta a me giudicarlo. So che in tanto presunto altruismo può esserci – e per me c’era – solo voglia di appagare il proprio ego.

Non so se ho smesso di fare del bene, spero di no. Ma sicuramente ho smesso di considerarmi buono. Ho assunto il coraggio del mio egoismo.

Credo di aver imparato un po’ meglio a riconoscere il vero bene, quello disinteressato.

Nello stesso tempo devo ammettere di essermi allontanato molto dalla Chiesa. Anche questo forse non è stato del tutto negativo: per amare veramente devi conoscere, e per vedere una cosa tutta intera devi guardarla da lontano.

Al di là delle delusioni che mi ha dato la Chiesa o del mio cammino culturale – sempre più laico – quello che mi è dispiaciuto di più è l’essermi accorto della mia lontananza da Dio.


Lontananza
forse non è la parola giusta, in realtà. Perché lui mi è sempre stato vicino, lo so, ma sono io che mi sono allontanato. Ho imparato, in qualche modo, a farne a meno, a non contare su di lui, anche se tutto questo non l’ho vissuto come chi si sente abbandonato, ma piuttosto come un figlio a cui il padre dice: “Adesso devi farcela da solo, anche se io sarò sempre con te”.

Ecco, è così che mi sono sentito. Lui c’era, ma stava zitto. O meglio, diceva solo lo stretto necessario.

Di fatto ho smesso di leggere la Bibbia, di fare direzione spirituale, di andare a scuola di preghiera. La messa è diventata un’abitudine, la preghiera un ricordo, il cristianesimo un ideale (sempre più politicizzato).

Eppure, devo dire che è stato proprio in questi ultimi tre anni che posso dire di aver scoperto la felicità. Magari mi è mancata la gioia, quello sì. L’esperienza diretta dell’amore, e di Dio.

Ma per la prima volta nella mia vita mi sono sentito libero, autonomo, appagato. Perché privato della consolazione religiosa e dell’amore umano, messo di fronte alla mia solitudine e alla mia pochezza, mi sono dovuto dare da fare per costruire la mia vita. Ho conosciuto molte persone; ho viaggiato un po’ di più; ho avuto amici nuovi, delusioni nuove, sofferenze nuove (ma non ho più conosciuto la disperazione e la desolazione), ho imparato a cavarmela. Ho anche cominciato a fare il giornalista, e a recitare in teatro. Ho avuto anche piccole storie d’amore e ho incontrato sacerdoti in gamba e suore meravigliose. Ma non è cambiato il mio punto di vista sull’amore.

“L’amore di coppia può essere bellissimo, l’amore di Dio anche e forse hanno pari dignità. Ma per ora nessuno dei due mi riguarda, e forse non mi riguarderanno mai”. Questo pensavo, fino a tre mesi fa. Poi ho incontrato Agnieszka.

Con lei ho ritrovato insieme Dio e l’Amore (o forse dovrei dire Dio è l’amore, o l’Amore è Dio).


La stima e la fiducia in una donna, e la preghiera. Ho scoperto un nuovo modo di sentirmi francescano. Ho scoperto il modo di sentirmi pienamente cristiano, senza le esaltazioni adolescenziali di un tempo, senza dicotomie tra coppia e ideale religioso, senza frustrazioni.

Con lei ho ritrovato una dimensione religiosa viva. Un amore pieno che non può mettere in concorrenza Dio e la coppia, perché davvero sono una cosa sola.

 

Amo Agnieszka in Dio e Dio in Agnieszka.

 

E forse non posso dire ancora di essere in piena comunione con Dio (ma lo potrò mai dire?) ma è certo che non ho mai amato una persona come amo Agnieszka.

Non solo quanto, Policarpo, ma anche come.

Credo di non avere un futuro da frate, come credo – e spero – lei non lo abbia da monaca, anche se poi, come dice sempre lei, “Tylko on vie” (si scrive così?).

Spero, però, di potere, insieme a lei, essere autenticamente francescano, e di trovare il modo di annunciare il Vangelo alle genti.

 

                         un abbraccio

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